Definizione 

L’art. 2105 Cod. Civ. rubricato “Obbligo di fedeltà” sancisce che «Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».

Secondo la norma, in costanza di rapporto di lavoro il dovere di fedeltà del lavoratore nei confronti del proprio datore impone l’osservanza di un divieto di concorrenza, nonché un obbligo di riservatezza. La violazione delle due imposizioni comporta responsabilità disciplinare (cfr. art. 2106), nonché l’obbligo al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro. Accanto alla tutela civilistica vi è quella penale per la protezione del segreto professionale ed aziendale (cfr. artt. 621-623 c.p.).

Ebbene, qualora il datore sia interessato a prolungare gli obblighi di fedeltà imposti al lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, è necessario che le parti stipulino liberamente un patto di non concorrenza.

In proposito, l’articolo 2125 del Codice Civile stabilisce quanto segue: «Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura indicata dal comma precedente».

La ratio legis della norma è duplice: da una parte consente alle imprese di tutelarsi nei confronti della concorrenza che potrebbe derivare dalla diffusione e dall’utilizzo di informazioni da parte di ex dipendenti (soprattutto quelli di più elevata qualificazione); dall’altra parte, stabilendo dei requisiti per la validità del patto, garantisce al lavoratore particolari tutele, evitando un’eccessiva limitazione della sua attività.

Requisiti di validità

È proprio l’art. 2125 appena letto a fornirci i requisiti di validità del patto di non concorrenza. Infatti, affinché questo sia valido ed efficace risultano imprescindibili i seguenti elementi costitutivi:

– forma scritta ad substantiam (cioè a pena di nullità del patto);

– determinazione di un corrispettivo;

– definizione dell’oggetto;

– individuazione di un ambito territoriale di operatività;

– durata predefinita.

Forma scritta

Come già detto, il patto deve risultare per atto scritto a pena di nullità. Può essere inserito nel contratto di lavoro iniziale, sia aggiunto in costanza di rapporto. Tuttavia, poiché il patto di non concorrenza si qualifica come un “normale” contratto a prestazioni corrispettive dotato di una causa autonoma rispetto a quella del contratto di lavoro, esso può essere oggetto di una pattuizione separata, anche al momento della cessazione del rapporto di lavoro stesso.

Determinazione di un corrispettivo

Sempre a pena di nullità del patto, il lavoratore ha diritto a percepire un corrispettivo, in ragione della limitazione che ne deriva per il prestatore d’opera.

La norma non detta indicazioni particolari sulla entità del corrispettivo, ma la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare come lo stesso non debba essere né simbolico, né manifestamente iniquo, né sproporzionato, ma congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione della possibilità di guadagno. A tal proposito potrebbe rivelarsi utile inserire una clausola di rivalutazione del patto allorquando il compenso diventi, dopo un lungo lasso di tempo dalla sottoscrizione, incongruo: tutto questo per evitare possibili rivendicazioni dell’interessato relative alla eccessiva onerosità sopravvenuta. 

In ogni caso, la congruità deve essere valutata, in concreto, in relazione alla misura della retribuzione, all’ambito territoriale sul quale opera il divieto ed al livello professionale del dipendente pena la nullità del patto di non concorrenza.

Quanto alle modalità di corresponsione del corrispettivo, il datore di lavoro ha generalmente la scelta tra le seguenti opzioni, entrambe ammissibili nella prassi:

– corresponsione del compenso con rate mensili in costanza del rapporto di lavoro: in detto caso il compenso risulta imponibile sotto l’aspetto contributivo e fiscale, atteso che va valutato in aggiunta alla normale retribuzione, ma concorre anche alla determinazione del trattamento di fine rapporto. Va da sé che in caso di cessazione del rapporto prima che siano versate tutte le rate, la porzione di corrispettivo non ancora liquidata debba essere corrisposta in un’unica soluzione al lavoratore.

– Liquidazione dell’importo successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro: in tal caso trattasi di obbligazione successiva alla fine del rapporto soggetta a tassazione separata. Tale opzione corrisponde alla regola, benché nella prassi sia frequente dilazionare il pagamento al termine del periodo di non concorrenza.

Definizione dell’oggetto

La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi diverse volte in merito: Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Dunque, l’oggetto del patto può andare oltre le mansioni precedentemente svolte dal lavoratore ed estendersi sino al punto di vietare lo svolgimento di qualsiasi mansione in mercati in cui convergono beni o servizi identici a quelli dell’impresa di appartenenza o che sono parimenti idonei a soddisfare le esigenze della medesima clientela. 

Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, la congruità dei limiti di oggetto non deve essere valutata in astratto, occorre infatti verificare che il patto consenta al lavoratore lo svolgimento non di una qualunque attività lavorativa, ma di un’attività adeguata e conforme alla sua qualificazione professionale. 

Ciò detto, da tener presente che il patto è nullo quando per ampiezza è idoneo a comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, limitandone ogni potenzialità reddituale (Cass. n. 13283/2003; n. 7835/2006).

La Suprema Corte ha infine stabilito che non possano rientrare nel divieto attività estranee allo specifico settore in cui opera l’impresa, in quanto non idonee ad integrare concorrenza. 

In conclusione, sì al contemperamento degli interessi datoriali con quelli del lavoratore che, in futuro, deve essere messo in grado di operare anche arricchendo la propria professionalità.

Ambito territoriale di operatività

Per quanto riguarda l’ambito spaziale, si ritiene che esso non sia rilevante di per sé ma che la valutazione dei limiti territoriali sia strettamente connessa a quella relativa ai limiti di oggetto anzidetti.

L’orientamento giurisprudenziale oggi prevalente ritiene infatti validi i patti estesi all’intero territorio nazionale, o addirittura comunitario, a condizione che i limiti di oggetto siano circoscritti, lasciando impregiudicati il diritto al lavoro e la professionalità dell’ex dipendente.

Ma vale anche il contrario: un patto avente un oggetto piuttosto ampio potrebbe essere ritenuto legittimo purché contenuto entro uno spazio geografico ristretto.

Abbiamo già avuto modo di spiegare infatti che la valutazione di congruità del patto di non concorrenza è frutto di un contemperamento fra le esigenze dell’azienda ed il diritto del dipendente di potere comunque esercitare un’attività lavorativa che gli consenta di produrre reddito.

Durata predefinita

Il divieto di concorrenza deve essere circoscritto entro determinati limiti di tempo. La norma fissa espressamente la durata massima del vincolo a 5 anni, se si tratta di dirigenti, e a 3 anni negli altri casi. Qualora venga pattuita una durata maggiore, la relativa clausola si ha come non apposta e la durata si riduce automaticamente nella misura suindicata (art. 2125, c. 2, c.c.).

La Cassazione ha sancito che la durata del patto deve essere delimitata ex ante al fine di tutelare l’esigenza del lavoratore di avere “sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative” (Cass. 16.8.2004, n. 15952).

Diritto di recesso e diritto di opzione

Il patto di non concorrenza può essere sciolto soltanto con il consenso di entrambe le parti: sono quindi da ritenere nulle, in quanto in contrasto con norme imperative, le clausole che affidino la possibilità di risoluzione al solo datore di lavoro. In tale quadro interpretativo si inserisce l’ordinanza della Cassazione n. 23723 del 1° settembre 2021 con la quale si afferma il principio secondo cui la rinuncia al patto dopo cinque anni dalla sua sottoscrizione da parte dell’imprenditore, pur nella continuità del rapporto (complessivamente, nel caso di specie, durò 11 anni), non trova alcuna giustificazione, atteso che i rispettivi obblighi sono stati “codificati e cristallizzati” al momento della sottoscrizione del patto, circostanza questa che impedisce al lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà. Tutto ciò considerando che contestualmente vige l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, corrispettivo che finirebbe per essere escluso qualora al datore venisse concesso di liberarsi dal vincolo in modo arbitrario. 

Diversa è l’ipotesi in cui viene previsto, un diritto di opzione (art. 1331 c.c.) a favore del datore di lavoro, da esercitarsi entro un termine definito dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

L’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui il diritto viene esercitato. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusiva iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale.

Rilevante, in questo caso è lo schema di perfezionamento che, nell’esercizio di un diritto di opzione non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto. Scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta, liberando il lavoratore dal patto di non concorrenza (Cass. n. 25462/2017).

Violazione del patto

La violazione del patto di non concorrenza costituisce inadempimento contrattuale e legittima le richieste di adempimento o di risoluzione del contratto e/o di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale.
Occorre tuttavia distinguere:

a) se la violazione è imputabile al datore di lavoro, l’altra parte può agire in giudizio per ottenere il corrispettivo e per risolvere il patto;

b) se è il lavoratore a violare il patto, il datore può chiedere la ripetizione di quanto già erogato e, ricorrendone le condizioni, avanzare richiesta di risarcimento del danno (che va dimostrato). 

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